Cosa mi hanno insegnato le barche
Un articolo comparso su Il Giornale della Vela nei numeri di agosto e settembre 2013.
Il mare non mi è mai piaciuto, non ho ancora ben capito cosa si intende con questa parola banale. La montagna si che è facile da capire, si estende tridimensionalmente ci puoi salire in cima scendere nelle valli e perderti nei boschi, appena ti allontani dalla strada non incontri più nessuno e te ne senti padrone, mentre per miliardi di persone il mare non è neppure bidimensionale ma solo una striscia di ombrelloni e stabilimenti di gusto pacchiano in cui si gareggia a scacciare la noia ripetendo i tormentoni dell’estate fino a quando non cominciano a piacere per sfinimento. Il mare è agosto, per il resto non esiste, è solo un obbligo sociale per chi non ha una cultura critica sufficiente a desiderare la libertà. Però ci sono le barche che rendono affascinante il mare. Le barche oggi sono a vela o a motore, un tempo erano a vela o a remi e le barche creano la navigazione che ha bisogno del mare sul quale quindi andiamo a navigare in cerca di guai che poi se non finisce male potremo annoverare fra le avventure personali. Lo stesso viaggio è diverso se fatto con barche diverse e infatti i velisti non parlano tanto della crociera nel tal posto ma citano quella sulla tale barca, e lo stesso faccio anch’io per ricordarmi le età della mia vita: gli anni del dinghy, del Cane Blu, della Culandrona, di Zonker, Vogliamatta, Midva, Lady B, Bète Grise, Gatorade, Giovi...
La prima barca era così anonima da non avere neppure un nome, chi l’affittò a mio padre la chiamò Shipman che era poi il nome del modello, ma per me era una nave, aveva un dentro e un fuori, una gabinetto un tavolo e la cucina, ci portava a spasso da un’isola all’altra e ci proteggeva dal mare, faceva insomma quello che tutti vogliamo che le barche facciano, anche se portata maldestramente e probabilmente molto lentamente. Mio padre di vela non capiva un granché e noi bambini figuriamoci, a undici anni avevo le idee confuse su dove si trovasse la Corsica e trovarmi la sera su una spiaggia di Cala Scirocco a Montecristo a lavare i piatti nell’acqua di mare mi sembrava di essere entrato in un film di avventura e pirati. La barca senza nome mi fece fare la pace col mare. Una pace armata, tu non fai scherzi e io ti rivaluto.
Come ci insegna la storia i trattati di pace valgono il peso dell’inchiostro che li ha scritti, e tante volte in questi anni in seguito a incidenti di frontiera abbiamo rischiato di riprendere le armi e smetterla con questo rispetto che tante volte sa di menzogna.
Io al mare non ci volevo andare. Per me era una noia stare in spiaggia, dove ero il più piccolo, o forse solo lo credevo, non sapevo nuotare, non giocavo a pallone e non avevo i soldi per il calcetto. Una noia abissale condiva le mie vacanze estive da qualsiasi nonno fossi parcheggiato. E le prime barche furono una gran delusione. Che barba, che strabarba. Il regalo del week end era un giro sul dinghy di papà sul quale non c’era proprio niente da fare se non guardare con apprensione il livello del mare che temevo potesse salire troppo, e pregare gli dei che il rientro in spiaggia con l’onda al traverso mi risparmiasse la vita. È incredibile a cosa non ci si possa abituare da bambini: crema da sole, costumino, canotta a righine bianche e rosse, osservavo mio padre sbracciarsi verso la spiaggia dove i bagnini si preparavano all’atterraggio portando fin sulla battigia i legni sui quali sarebbe scivolata la chiglia del Dinghy, poi ci avvicinavamo a terra e mentre la barca si traversava nelle onde che mi sembravano enormi venivo preso di peso e una catena umana mi rimetteva sulla spiaggia bollente. Mi sembrava normale, forse lo era, a me ora non sembra.
Fra le tante nonne di una famiglia allargata c’era quella ricca, che un giorno ci prelevò grazie a un provvidenziale pattino e ci portò a fare due bordi. Quando la barca sbandò mi misi a piangere dalla paura, e mio padre con lo stesso tono grave che usava per parlare del divorzio da mia madre mi
spiegò che quella barca non poteva capovolgersi, e che avrebbe potuto fare il giro del mondo. Gli credetti, e forse questo cominciò a far germinare la fiducia nelle barche, anche se dello sbandamento continuai ad avere paura per tanti anni prima di capire che lo sbandamento è lo stato normale in cui una barca naviga per la maggior parte del suo tempo e bisogna farci un bel callo anche se poi c’è poi dei momenti in cui la barca è piatta e si può cucinare o muoversi a bordo con meno fatica che non deve essere considerato eterno.
Il terrore per lo sbandamento è il terrore di tornare indifeso fra i flutti, magari senza tutti quei bagnini che ti prendono per le braccine unte e ti portano in spiaggia dalle nonne abbronzate come bitte d’ormeggio.
Le Vecchie Barche Sicure
Mio padre comprò una barca sicura e robusta con la quale godersi le vacanze “ora che siete grandi” e insieme imparammo a navigare. Lui era metodico e aveva una grande pazienza ad insegnarci di tutto, dai nomi delle costellazioni alle impiombature. La sua nuova moglie si era sempre comportata da marinaia esperta ma si lasciarono pochi mesi dopo l’acquisto della barca, e già allora sospettai ci fosse un nesso fra i due eventi, quindi lui si ritrovò a dover badare a noi e alla barca, compito impossibile vista la nostra giovane età; imbarcò quindi un secondo con grande esperienza, un marinaio triestino purosangue – Uccio Skerl - che aveva navigato con Rode, il prodiere di Straulino, si era costruito una barca con cui era arrivato fino a Rodi con gli amici, aveva fatto la guerra in sala macchine, rischiato l’amputazione di una gamba dopo che una scheggia gli si era ficcata dentro durante l’attacco di Portoferraio, era stato affondato da un sommergibile in Adriatico, e insomma, da raccontare ne aveva davvero tante. Mi stupì raccontando come il comandante del sommergibile, prima di dare ordine di lanciare il siluro li aveva invitati a scendere sul canotto di salvataggio. Ora so che in mare siamo tutti uguali, ai tempi pensavo che i tedeschi sapessero dire solo Shnell e Foyer.
Per evitare la folla navigavamo in settembre. Pioveva sempre, quando non pioveva tirava mistral che imparai a capire che poi gira a scirocco, ma allora avevamo delle tappe da fare e si navigava sempre di bolina, sempre con cattivo tempo, sempre con delle previsioni inattendibili che continuavamo ad annotare a turno su giornali di bordo grossi come guide del telefono.
A me quelle vacanze piacevano. Mi sentivo grande, cambiavo le vele, andavo sott’acqua, parlavo in Corso e Francese, bevevo un bicchiere di vino a fine pasto, facevo le impiombature sotto lo sguardo di Uccio e alla sera tiravo bordi con il tender a vela in baie deserte, come Portocervo che ai tempi non era ancora stato “valorizzato” e imparavo a timonare, e raddrizzare la barca quando lo sbandamento risvegliava l’animale di ghiaccio che vive sotto la pelle.
Ma la barca era veramente brutta, un disastro, tanto che per anni, prima di mettermi a studiare la storia dello yachting, associai il nome di Laurent Giles con ogni tristezza in dote all’umanità. Era un Westerly Renown, un 31 piedi perfetto per una crociera alle Shetland fuori stagione. Stretta e con poco pescaggio aveva una chiglia piuttosto lunga e uno skeg che ne limitavano la manovrabilità. Una prua molto voluminosa che la teneva asciutta ma le impediva di bolinare con onda ed era armata a ketch. La prua era appesantita dal pozzetto della catena, dal suo verricello, e da un serbatoio con duecento litri d’acqua sotto la cuccetta. A poppa due gruette in ghisa con appeso il tender controbilanciavano e aiutavano un rollio che avrebbe fatto vomitare uno scimpanzè. Con una Vecchia Barca Sicura si sopravvive al cattivo tempo, si impara a regolare bene le vele come sull’optimist e si apprezzano quasi tutte le altre barche.
Se ci fosse ancora saprei come usarla. Potrei finalmente visitare le Shetland fuori stagione.
Questo è il nodo centrale della vela, bisogna avere sotto i piedi la barca giusta per fare quello che non si sa bene al momento dell’acquisto, non esiste la barca passpartout, come non esiste la casa ideale o l’auto definitiva.
A tredici anni feci la mia prima fuga di casa, pilotata dalla famiglia che mi affidò per un week end a Piero Nessi che aveva appena varato il suo primo trimarano con cui avrebbe partecipato alla Route du Rhum. Week end fulminante: prima navigazione notturna, da Sestri Levante ad Alassio nella tradizionale bufera da nord che imbianca il golfo di Genova all’inizio di primavera con conseguenti spruzzi fosforescenti al plancton che la prima volta fanno la loro bella figura, prima volta su di un multiscafo con velocità per me da brivido, e prima volta in camera con una donna che non mi era consanguigna , una amica di Nessi che essendo single non poteva certo dormire con i maschiacci dell’equipaggio. In un week end mi capitò più o meno tutto quello che capita nella vita di un velista, durante la burrasca per conquistare l’equipaggio mi diedi da fare con gli spaghetti e la mattina dopo tornai a casa in autostop da Alassio a Milano. WOW, ero diventato adulto, quegli animali dei miei compagnoi di scuola potevano prendermi per il culo per i capelli lunghi e la erre moscia ma loro l’alba nella tempesta, al largo di Savona al timone di un trimarano in alluminio che respirava come una balena dalla scassa della deriva non l’avrebbero mai vista in tutta la vita.
Diventai un fan e un discepolo di Piero Nessi che con grande pazienza qualche volta mi portò in barca e in cantiere. Imparai un paio di cose che mi sarebbero venute poi utili e mi sentii autorizzato a spacciarmi per esperto di multiscafo, altri ci cascarono in pieno e mi trovai poi a tirare bordi col Rusty Pelican al largo di Antibes e con Fleury Michon al largo di Finisterre. Sono stato il primo pirla a comprare un Formula 18 in Italia, l’ho sporcato con la limatura dei miei dischi lombosacrali e abbandonato per tornare sui cabinati e per me questa è la classe più bella in cui abbia navigato.
Le Belle Barche
Navigare con degli sconosciuti mi riempì di sicurezza in me stesso, l’anno seguente feci la mia prima regata accorgendomi che di velisti scarsi ce ne sono abbastanza da farmi autopromuovere fra quelli bravi e due anni dopo mi imbarcai per un trasferimento su un bellissimo “Two Tonner” appena sceso in mare che andava a fare le regate di Alassio: Vogliamatta. Ad Alassio, come si dice bonariamente, Vogliamatta si prese le carrube lasciandomi di sasso. Non avevo mai visto una barca così bella e così ben attrezzata, ero certo che avrebbe fatto un figurone e invece un bel metà classifica con l’onta di una strapuggia di quelle che non si fanno più e che , ammetto, ai tempi mi terrorizzavano solo a pensarci. Fallita la missione feci il trasferimento di ritorno lavorando come un matto e cambiando e facendo cambiar vele a ogni variazione del vento, fino a suscitare le proteste dell’equipaggio. L’ingegnier Pluda che aveva costruito la barca dei suoi sogni mi prese in simpatia e mi imbarcò per il trofeo Zegna, le regate di primavera a Portofino che ora sono diventate Regate Pirelli. Per farle saltai la scuola senza dirlo a casa, miei voti non permettevano vacanze premio e quindi venerdì presi un treno all’alba, tornai a casa per cena bello abbronzato giustificandomi con una seduta di studio ai giardini pubblici di via Palestro e annunciai che l’indomani sarei partito subito dopo scuola per andare al mare, mentre invece scappai di notte e presi un treno notturno che mi
riportò a Rapallo. La balla non fu mai scoperta, l’ho confessata solo pochi anni fa e mia madre non ci ha creduto. Questo ci insegna molto su quanto sia difficile farsi credere dai nostri simili. Mi comportai abbastanza bene da essere imbarcato stabilmente ma non così la barca più bella che avessi mai visto, che fece un risultato mediocre mandando l’armatore in depressione paperoniana. Per l’estate Aldo mi portò in Sardegna a fare la Settimana delle bocche.
Mi presentai a Rapallo, e fatta la spesa mettemmo la prua su Portocervo. Capito? Dopo anni di rotte tracciate con precisione angloprussiana sveglie all’alba per arrivare in porto in tempo per la cena questo qui partiva quando gli girava e chissenefrega di cosa succede per mare.
Avevo scoperto un mondo nuovo, quello delle belle barche. Le belle barche sono quelle che navigano con la sola randa, possono bolinare con trenta nodi, navigano più a vela che a motore, non nascondono strutture, attrezzature e impiantistica con pannelli e armadietti. Sono le vere barche a vela. Adlard Coles diceva che la miglior barca da crociera è la miglior barca da regata e, fino a qualche anno fa , il paragone calzava. Vogliamatta mi ha insegnato molto. Ho fatto il prodiere, il capoturno, il timoniere, il navigatore, e dopo un paio di anni anche dei bei risultati, quando il timone è stato affidato ad Agostino Traverso, un anziano velista genovese che ha messo a punto l’albero come gli sembrava giusto fregandosene delle tabelle preconfezionate dai professionisti mordi e fuggi e ha fatto quello che fanno tutti i bravi timonieri, cioè portato la barca velocemente sul lato giusto del percorso, fino a farci fare un bel secondo posto al Trofeo Zegna, che allora era una cosa importante. Sono salito su questo Vallicelli senza il rasoio e ne sono sceso skipper, dopo averla consegnata al nuovo armatore quando Aldo si è ammalato sul serio e ha capito che planate, burrasche buiabesse e tramonti nelle Bocche di Bonifacio non ne avrebbe più viste. Ne sono sceso skipper, pronto a partire a ogni ora del giorno e della notte, e con abbastanza esperienza da potermi presentare a Giorgio Falck e farmi imbarcare sul Guia o convincere Agostino Castiglioni a comprare Brava che il suo cabinato da crociera non andava abbastanza.
Le Belle Barche hanno dei verricelli che cazzano scotte in spectra, un tempo in acciaio e kevlar, fino a farle suonare come corde di violino, picchiano nell’onda senza rallentare, ma sottocoperta si sta bene che hanno le sponde alle cuccette e si riesce a cucinare anche con mare grosso. Avevo capito tutto della vela.
Le Robuste Barche Oceaniche
Pensavo di aver capito tutto ma Falck ha comprato New Zealand Enterprise per fare la regata intorno al mondo, quella che ora si chiama Volvo Ocean race e ho scoperto la fragilità delle robuste barche oceaniche. Queste nascono per navigare e soffrono di problemi che il crocierista pensa sepolti con la fine dell’ottocento. L’acqua deve restare fuori dalla barca, e invece entra dai boccaporti, dall’albero, dal bulbo e da ogni bullone che traversa la coperta. La barca non deve rompersi e i vezzeggiativi non si imbarcano: niente tavolini, stipetti, cucinotti, solo roba robusta che non deve restarti in mano se la barca sbanda o sbanda molto o quando arrivano degli ondoni che colgono alla sprovvista il timoniere, che navigando giorno e notte per settimane e settimane ogni tanto può anche rimbambirsi un attimo.
Gatorade, come fu ribattezzata, era un cantiere ambulante. A bordo c’erano sempre casse piene di bulloni, trapani, flessibili e barattoli che ad ogni sosta venivano tirati fuori per prepararsi alla grande
regata che il padrone delle Ferriere Lombarde che portavano il suo nome andava a fare per la terza volta convinto di poter fare un risultato grazie alle linee d’acqua di Bruce Farr e alla sua esperienza. Facemmo il Fastnet e finimmo ottavi, fecero “il giro”, come diceva il marinaio Jepson, e finirono ottavi. Ma chi se ne frega, Falck aveva mantenuto la sua promessa di portare un gruppo di ragazzi a vedere gli iceberg le aurore boreali e le planate interminabili nel grande sud, a me non mi potarono ma mi fecero innamorare dell’Oceano dei turni di guardia con ogni tempo e di quelli in cucina mentre senti che fuori c’è il pandemonio ma continui a mescolare la pommarola che oggi a me domani a te non ho scelto io in che turno stare.
C’è un gran baccano, sottocoperta. Senti la prua salire sull’onda, l’acqua che passa i paglioli si sposta verso un nuovo equilibrio e quando arriva la botta nel va tutto in risonanza, senti il rigido dello scafo che vibra, la coperta che flette e tutti i barattoli che si spostano nelle loro casse. Ora arriva la lavata in coperta, dal rumore capisci quant’acqua ti sta passando sopra la testa e automaticamente calcoli quanta ne entrerà da tutti i bulloni siliconati male in un suono di cascatelle che ti ricordano le estati in Val Fontana a giocare a far le dighe. Sopra diverse cuccette sono stati nastrati dei cellophane che convogliano l’acqua sul compare del piano di sotto, oggi a me domani a te.
Mi è capitato di non dormire per il freddo, per la tensione, per il rumore e per la sete. Qui, per la prima volta, sto sveglio per la tanfa. Si cammina su strati e strati di vele. Su un genoa ci ha cagato un cane mentre erano nel capannone di Sangermani, la vela è salita a bordo e coperta dalle altre e passa fuori il reacher, metti sotto lo staysail le deiezioni si sono democraticamente divise su tutti i sacchi, e piano piano se ne escono dalla pompa di sentina dopo aver colorato il contenuto della sentina, che già da solo non sembra potabile.
Ancora più salato Capo Finisterre con il trimarano che Pierre Sicouri aveva affittato per fare la OSTAR del 1988. Era il vecchio Fleury Michon VI, una barca della vecchia generazione , piuttosto voluminosa e
troppo pesante per potersi sollevare su uno scafetto laterale come si fa oggi ma ben rodata e dall’aria robusta. Su ste barche il passaggio dell’onda avviene uno scafo per volta e per ogni onda sono tre botte e sei secchiate, che lo spruzzo di sottovento rimbalza su scafetti e traverse e ti becca da ogni direzione e anche qui fortuna che sono andato fino a Cadice se no col cazzo che imparavo qualcosa. Eravamo così ignoranti che durante un turno di notte, scendendo lungo la costa portoghese spinti dall’omonimo aliseo io e il Giovannino Falck abbiamo visto accelerare la barca oltre i venti nodi e temevamo di entrare nell’iperspazio. “Giovanni, cazzo facciamo?” .. “prova a orzare, piano piano..” 21, 21.5, 22... io non ero mai andato così veloce in barca, era la prima volta che vedevo la luna illuminare a giorno le onde grigie e i frangenti argentati, mi sembrava di volare verso il fondo del Maelstrom e non sapevo se quella planata sarebbe finita con una capriola. Altro che orzare, bisognava fare l’opposto ma sapete tutti che c’è un dio che protegge i fessi e un provvidenziale calo del vento rimise il log al suo posto e ci fece tornare a deglutir contenti. Che strane barche le robuste barche oceaniche! Devi cazzare lentamente scotte e drizze, guardare bene cosa fa l’albero e semmai correggere, proteggere le scotte dalle abrasioni con stracci nastri e bozzelli che le allontanino dalle battagliole, devi fare in navigazione la manutenzione che sei abituato a fare in porto o un’altra volta, e intanto macini miglia e ascolti la radio e non te ne importa nulla di chi sta a terra, affari loro, provate a venire a prendermi ora.
Dopo Gatorade fu Steinlager II, trentacinque tonnellate di carbonio e tecnologia, un container di vele, e un paio di neozelandesi stupefatti che cercavano di mantenere in ordine quel capolavoro con
la metodologia anglosassone mentre gli italiani fumavano sottocoperta e Falck virava improvvisamente senza che tutto l’equipaggio ne fosse informato. Ero a bordo il giorno di Portofino. C’era un vento strano per il Tigullio, un nord sui venti nodi che scavalcava il monte e cadeva a chiazze facendo lavorare parecchio i grinders e la villa di Giorgio era piena di ospiti importanti che sono usciti in giardino vedendosi avvicinare il ketch rosso ritenuto all’epoca in miglior manufatto in carbonio nella storia dell’umanità dopo il portellone di carico dello Space Shuttle.
Don Wright chiese a Giorgio : “is this Portofaino?” Giorgio rispose con una domanda: “haven’t you ever been to Portofino? I want to show you Portofino” e puntò verso l’imboccatura. L’equipaggio si preparò ad una virata che non ci fu, semplicemente tirò dritto. Il porto era perfettamente ridossato e la nostra velocità calò così come noi ci facemmo muti e tutti quelli che erano sul molo smisero di parlare, e anche i bambini che i padri sollevarono per renderli testimoni di una delle ultime apparizioni dell’Olandese Volante smisero di frignare, almeno fino a quando, di fronte a una mezza dozzina di bompressi che ci aspettavano come le lance nella battaglia di San Romano decise che era tempo di virare, chiuse gli occhi, e virò.
Con la poppa fece, io non c’entro, un bel danno a un motoscafo open ormeggiato di fronte alla Gritta, con la prua entrò invece in un motoscafo di una ventina di metri, si vide subito che era in compensato marino, gli strappò qualche metro di cavi elettrici, svuotò il frigo, accese le luci di una cabina e buttò in mare qualche parabordo. A quei tempi l’attuale presidente della Go Pro era ancora a giocare con i kapla e dovete accontentarvi del mio racconto, ma chi ha avuto la fortuna di visitare Portofino credo capisca che cazzata gigante abbiamo combinato in quel giorno di autunno, sotto lo sguardo perplesso degli ospiti importanti che Rosanna Schiaffino Falck aveva sfollato nel giardino della villa per fargli assistere alla conquista del borgo da parte del padrone delle Ferriere.
Con il manufatto in carbonio scoprii che esiste un limite alle dimensioni delle barche e che aumentando le dimensioni non ci si sente poi così sicuri, magari ci si bagna un po’ di meno, ma quando sei in mezzo al mare sei sempre un puntino minuscolo e se bisogna finire in mare o affondare il destino non ti guarda in faccia, sia che ti chiami Davide Besana sia che ti chiami Piero Calamai. E anche se il carbonio era bello solido, mica come quelli di oggi, non puoi portare una Robusta Barca Oceanica come fosse una bella barca da regata, gli sforzi vanno oltre l’intuito del marinaio e ti devi affidare alle tabelle compilate da chi ha progettato barca e attrezzatura, così nella prima notte di navigazione per portarla in Italia con a poppa Marstrand la prua su Cowes e sotto la pancia trenta metri d’acqua ammainammo il genoa e affrontammo le onde dello Skagerrak con solo la randa con due mani per rallentare l’andatura e portare a casa capra e cavoli.
I neozelandesi sembravano essere stati laminati assieme alla barca, vivevano in completa simbiosi e te credo, ci avevano fatto il giro del mondo vincendo – unici nella storia – tutte le tappe. Il loro concetto di manutenzione era totale, mentre io ero stato abituato a vedere peggiorare lo stato delle mie barche anno dopo anno loro smontavano rimettevano a nuovo e rimontavano tutto quello che cominciava ad aver subito troppo cicli. Sentii parlare per la prima volta della “manutenzione all’africana” che consiste nell’aspettare che un pezzo si rompa per sostituirlo e mi vergognai per me e per i miei maestri erano stati involontariamente citati.
L’equipaggio di Peter Blake faceva tutte le cose in un modo solo, e non c’erano discussioni. Un sistema per ammainare lo spi da zero a cinquanta nodi, un sistema per issare il genoa da zero a cinquanta nodi, un solo modo per issare o ammainare le carbonere. A bordo restava sempre uno a far la guardia, anche di giorno, anche in calma piatta. Ah già, le carbonere. Forse ricordate che la prima barca di mio padre era armata a ketch? Ammetto, mi sono rivenduto l’esperienza infantile e mi sono spacciato come esperto di alberi di mezzana
omettendo che quello era alto si e no cinque metri contro i ventiquattro di quest’altro. D’altra parte chi non risica non rosica, ogni volta fai qualcosa di più, rubi un po’ di esperienza a chi la sa lunga e un giorno ti trovi prodiere sul maxi più bello del mondo mentre la regata prima stavi sotto a giuncare gli spi. C’est la vie, c’est la voile.
L’alter ego
Nel frattempo era arrivata Midva, a sostituire Zonker, che sostituiva Culandrona, che aveva sostituito un laros Pirelli. Queste sono state la flotta della famiglia materna, che anno dopo anno mi ha seguito nella passione per il mare fino all’arrivo della nostra barca definitiva.
Non posso scrivere di Midva come delle altre barche di queste pagine, perché io e Midva siamo a stessa cosa. Siamo cresciuti assieme. Avevo ventidue anni e lei era nuova di pacca, una perfetta barca da crociera regata che ricordava Vogliamatta anche se ai tempi mi sembrava meno bella e ora molto di più. Aveva un sacco di vele per giocare a cambiarle e tanti winches per cazzare scotte e scottine e drizze in acciaio che ogni anno sostituivo per tenerla sempre al meglio. Poi i miei hanno smesso di fare crociera, ho messo su famiglia e Midva è stata rimessa a nuovo per andare in crociera con un lungo refitting che l’ha migliorata e semplificata per farmi navigare tranquillo anche da solo. Ma un giorno abbiamo avuto la malaugurata idea di farci una regata e abbiamo scoperto che è un missile, una micidiale arma da competizione che abbiamo messo in assetto regata per toglierci il gusto di farci dire “complimenti” da amici e avversari. Siamo la stessa cosa, cambiamo abitudini, abbiamo fatto lunghe crociere con tanti amici, crociere tranquille in famiglia, eroiche regate nella bufera e domani chissà, magari faremo i raduni delle barche d’epoca vestiti a strisce orizzontali come i francesi o magari se divento ricco il Fastnet o il giro del mondo. Non sono mai stato a Sant’Elena, magari ci andiamo insieme.
Le barche giuste
Ma non si può progredire e basta, per diventare saggi ci vuole qualche ripensamento, o meglio a un certo punto ti accorgi di poter tornare sui tuoi passi e chi ti vuole bene dice che sei diventato saggio. Mio padre vendette il Ketch e comprò una barca bellissima, nel senso che assolve alla perfezione il compito per cui è stata progettata così come lo aveva fatto Steinlager vincendo - primo nella storia - tutte le tappe del giro del mondo.
Mi stupì positivamente con la scelta di uno scafo in alluminio tondo a deriva integrale, con solo quattro cuccette per i suoi 37 piedi, la doccia calda gli interni in legno pitturato di bianco e una coperta in treadmaster azzurro che ricordava le barche da lavoro del nord. Infatti Bète Grise era nata a La Rochelle, un paese esotico, nel senso che per andarci ci si mette il triplo del tempo e dei soldi necessari a raggiungere New York.
Lo convinsi a portarla via mare anziché lungo i canali francesi e lui accettò, mi invitò a fare assieme il trasferimento e accettai io. Poi venni a sapere che la mia presenza gli aveva fatto risparmiare sulla polizza assicurativa, che il broker voleva a bordo qualcuno che avesse già fatto un po’ di miglia fuori dagli stretti, ma vabè, lo farei pure io.
Con quella barca feci la pace con mio padre, la pace definitiva dopo tutti gli anni delle due famiglie le rivalità eccetera eccetera qui si parla di vela siamo mica su Riza Psicosomatica. A metà del Golfo di Biscaglia arriva il sudovest e bordeggiamo con un paio di mani e il fiocco da vento, con l’autohelm che lavora e si bagna mentre noi quattro pranziamo due volte al giorno seduti a tavola come al ristorante. La barca non ha fatto manco un miglio, è attrezzata in economia; le borose non arrivano ai verricelli, la drizza spi non arriva a prua, anche i tubi dell’acqua all’interno sono tagliati così corti che sono in tensione, ma passa bene sulle onde che turno dopo turno diventano proprio alte, non imbarca una goccia d’acqua e noi siamo contenti, anche se io ho
vomitato per una giornata intera e mio padre si è incrinato una costola volando dalla cuccetta, così capisce che non si dorme a prua. La seconda sera il motore non parte. Urcavacca non ci voleva, strano, è nuovo, ci hanno dato la barca con i serbatoi pieni, sarà un tubo, sarà la pompa del gasolio? Senza le batterie non possiamo andare a spasso, dobbiamo fermarci a La Coruña, che solo il nome mi ricorda le imprese di Illingworth, che culo, ci fermiamo in Spagna e si entra in porto senza le carte fortuna che il giovane Falck mi ha prestato il suo Magellan, uno dei primi gps a pile che costa un botto di batterie ma ci dice latitudine e longitudine e scusami se è poco.
Arriviamo con venti nodi tirando bordi nella nebbia e il Magellan dice che ci siamo ma non si vede niente, possibile si sia fuso proprio ora? All’orizzonte si vede un tubo ma quando guardo il windex vedo la città, lì davanti a quattrocento metri, arroccata su una montagna che buca la nebbia, siamo arrivati! Bordeggiamo fino all’ingresso del porto, dove come da sempre mi faccio da parte per mollare la barra a mio padre, che per la prima volta la rifiuta “no, timona tu” e riusciamo a prendere un gavitello senza combinare pasticci. È il nostro primo ormeggio e lo facciamo a vela di fronte a un circolo dove ballano il flamenco. E il motore? Da non crederci, abbiamo finito il gasolio, anzi, quel poco gasolio che il cantiere aveva caricato a bordo invece di fare il pieno...
A parte qualche economia del cantiere Bète Grise è una barca onesta, progettata per fare il suo mestiere senza fare scherzi a chi porta a spasso.
L’avvocato Besana avrebbe voluto festeggiare i suoi sessanta con una lunga crociera oceanica ma un camionista distratto ha fatto rimbalzare sul guard rail la sua potente volvo che, uscita nel prato a centosessanta chilometri l’ora è atterrata contro un blocco di cemento, un grande professore, anche lui appassionato di vela, decise di tentare l’impossibile per salvarlo condannandolo di fatto a tredici anni di agonia e condannando me e i miei parenti a rivedere i piani vacanze.
Basta programmi oceanici, telefono acceso ventiquattro ore, un bel po’ di cattivo umore, fino a quando non ho scoperto i catamarani sportivi. Da perfetto ignorante borioso ho chiesto a Enrico Contreas un suo Mattia 18 per fare il giro della Corsica in regata. Bella formula, navighi veloce e dormi in tenda, fai un sacco di sport adrenalinico a due passi da casa così se succede qualcosa torni in un attimo.
Il giro di Corsica non l’ho mai fatto ma per diversi anni ho dimenticato i cabinati e imparando a timonare meglio e a controllare la tensione prima delle regate. Ma poi una mattina sull’alto Garda la scotta spi ha battuto i dischi lombosacrali otto a zero e ho dovuto regalare il trapezio a qualcuno più atletico. Sono tornato a correre sui cabinati e ho scoperto che se sei bravo è molto divertente, la soddisfazione è la stessa perché corri contro il tuo peggior nemico, quello stronzo che tutte le mattine ti conta le rughe nello specchio.
Le barche sbagliate.
Nel 1999 ho visto volare in acqua un bambino, anzi un superbambino figlio del pluricampione Tiziano Nava e della sua supermoglie Paola che si era distratta un momento mentre passeggiavano sul grasso molo di Portofino, e avevo potuto constatare la impressionante velocità con cui un piccolo corpo immerso in un liquido affondava senza ricevere alcuna spinta dal basso verso l’alto, alla faccia di Archimede e di Edoardo Amaldi che ce lo aveva trasmesso. Capii che per fare le vacanze in barca e restare sposato con una moglie meravigliosa ma assolutamente inadatta alla vita da marinai non avrei dovuto trovarmi in mezzo al mare con cattivo tempo, era troppo pericoloso.
Affrontai la crociera come si affronta una regata, con degli obiettivi precisi, fare felice l’equipaggio, da raggiungere in un certo tempo e con un certo budget. La prima crociera con i bambini fu un breve trasferimento da Alghero a Punta ala, due coppie con quattro bambini di sette e otto anni su un bellissimo IMX 38 che non facemmo quasi sbandare.
Era arrivato il primo telefono cellulare con internet e per la modica cifra di un milione di lire riuscimmo a navigare solo con le condizioni che volevamo. Il Magic Blue era una barca perfetta per controllare i bambini, farli giocare fare il bagno e tutto quanto anche se il pozzetto li scodellava fuori con vento forte e aveva una specie di scivolo per far stare comodo il randista dal quale tutti siamo scivolati con conseguenti pianti e madonne.
L’anno successivo andammo su una barca progettata per bere birra all’ancora, un comodissimo progetto americano che era così comodo da non avere il paterazzo per poter montare una grande randa steccata che compensava le ridotte dimensioni del fiocco. O sono scemo io o è scemo chi l’ha disegnata, era ingovernabile. Di bolina lo strallo di prua concedeva una bella catenaria che ingrassava a dismisura il fiocco facendo sbandare e scarrocciare mentre appena si poggiava la randa enorme faceva straorzare che era un piacere, sembrava ci fosse un ubriaco al timone anche al mattino, ma magari negli Stati Uniti si divertono così.
Ma anche la famosa barca francese ci ha stupito non poco. Era una bella scatolona, con interni spaziosi e luminosi. Spaziosi e luminosi. Lo spazio era stato creato omettendo la struttura, a la famosa barca francese, così bella all’ancora con tutte le sue lucine accese in ogni angolino e stipetto e bagnetto, una volta sotto vela si torceva con scricchiolii che fortunatamente non tutti udivano, e la scotta randa avvicinava si il boma al fondo del pozzetto ma sollevando quest’ultimo di qualche centimetro.
Non sto a raccontarle tutte, inutile aprire polemiche con chi naviga disegna o costruisce famose barche americane, francesi o tedesche, come quella che abbiamo usato per il “team buiding” a che caricando le sartie si deformava abbastanza da chiudere ermeticamente le porte delle cabine, ormai avete capito che le barche hanno un’anima, ma sul serio, spesso più di tanti umani con cui interagiamo, e quest’anima non può essere prodotta in serie.
Davide Besana, maggio 2013
NDA - Pubblico il dattiloscritto in mio possesso che non è necessariamente quello uscito sul GDV. Le immagini non sono quelle pubblicate dal mensile nel 2013 ma quelle delle barche in questione che ho a disposizione.