Cosa mi hanno insegnato le barche
Un articolo comparso su Il Giornale della Vela nei numeri di agosto e settembre 2013.
Il mare non mi è mai piaciuto, non ho ancora ben capito cosa si intende con questa parola banale. La montagna si che è facile da capire, si estende tridimensionalmente ci puoi salire in cima scendere nelle valli e perderti nei boschi, appena ti allontani dalla strada non incontri più nessuno e te ne senti padrone, mentre per miliardi di persone il mare non è neppure bidimensionale ma solo una striscia di ombrelloni e stabilimenti di gusto pacchiano in cui si gareggia a scacciare la noia ripetendo i tormentoni dell’estate fino a quando non cominciano a piacere per sfinimento. Il mare è agosto, per il resto non esiste, è solo un obbligo sociale per chi non ha una cultura critica sufficiente a desiderare la libertà. Però ci sono le barche che rendono affascinante il mare. Le barche oggi sono a vela o a motore, un tempo erano a vela o a remi e le barche creano la navigazione che ha bisogno del mare sul quale quindi andiamo a navigare in cerca di guai che poi se non finisce male potremo annoverare fra le avventure personali. Lo stesso viaggio è diverso se fatto con barche diverse e infatti i velisti non parlano tanto della crociera nel tal posto ma citano quella sulla tale barca, e lo stesso faccio anch’io per ricordarmi le età della mia vita: gli anni del dinghy, del Cane Blu, della Culandrona, di Zonker, Vogliamatta, Midva, Lady B, Bète Grise, Gatorade, Giovi...
La prima barca era così anonima da non avere neppure un nome, chi l’affittò a mio padre la chiamò Shipman che era poi il nome del modello, ma per me era una nave, aveva un dentro e un fuori, una gabinetto un tavolo e la cucina, ci portava a spasso da un’isola all’altra e ci proteggeva dal mare, faceva insomma quello che tutti vogliamo che le barche facciano, anche se portata maldestramente e probabilmente molto lentamente. Mio padre di vela non capiva un granché e noi bambini figuriamoci, a undici anni avevo le idee confuse su dove si trovasse la Corsica e trovarmi la sera su una spiaggia di Cala Scirocco a Montecristo a lavare i piatti nell’acqua di mare mi sembrava di essere entrato in un film di avventura e pirati. La barca senza nome mi fece fare la pace col mare. Una pace armata, tu non fai scherzi e io ti rivaluto.
Come ci insegna la storia i trattati di pace valgono il peso dell’inchiostro che li ha scritti, e tante volte in questi anni in seguito a incidenti di frontiera abbiamo rischiato di riprendere le armi e smetterla con questo rispetto che tante volte sa di menzogna.
Io al mare non ci volevo andare. Per me era una noia stare in spiaggia, dove ero il più piccolo, o forse solo lo credevo, non sapevo nuotare, non giocavo a pallone e non avevo i soldi per il calcetto. Una noia abissale condiva le mie vacanze estive da qualsiasi nonno fossi parcheggiato. E le prime barche furono una gran delusione. Che barba, che strabarba. Il regalo del week end era un giro sul dinghy di papà sul quale non c’era proprio niente da fare se non guardare con apprensione il livello del mare che temevo potesse salire troppo, e pregare gli dei che il rientro in spiaggia con l’onda al traverso mi risparmiasse la vita. È incredibile a cosa non ci si possa abituare da bambini: crema da sole, costumino, canotta a righine bianche e rosse, osservavo mio padre sbracciarsi verso la spiaggia dove i bagnini si preparavano all’atterraggio portando fin sulla battigia i legni sui quali sarebbe scivolata la chiglia del Dinghy, poi ci avvicinavamo a terra e mentre la barca si traversava nelle onde che mi sembravano enormi venivo preso di peso e una catena umana mi rimetteva sulla spiaggia bollente. Mi sembrava normale, forse lo era, a me ora non sembra.

Fra le tante nonne di una famiglia allargata c’era quella ricca, che un giorno ci prelevò grazie a un provvidenziale pattino e ci portò a fare due bordi. Quando la barca sbandò mi misi a piangere dalla paura, e mio padre con lo stesso tono grave che usava per parlare del divorzio da mia madre mi
spiegò che quella barca non poteva capovolgersi, e che avrebbe potuto fare il giro del mondo. Gli credetti, e forse questo cominciò a far germinare la fiducia nelle barche, anche se dello sbandamento continuai ad avere paura per tanti anni prima di capire che lo sbandamento è lo stato normale in cui una barca naviga per la maggior parte del suo tempo e bisogna farci un bel callo anche se poi c’è poi dei momenti in cui la barca è piatta e si può cucinare o muoversi a bordo con meno fatica che non deve essere considerato eterno.
Il terrore per lo sbandamento è il terrore di tornare indifeso fra i flutti, magari senza tutti quei bagnini che ti prendono per le braccine unte e ti portano in spiaggia dalle nonne abbronzate come bitte d’ormeggio.
Le Vecchie Barche Sicure
Mio padre comprò una barca sicura e robusta con la quale godersi le vacanze “ora che siete grandi” e insieme imparammo a navigare. Lui era metodico e aveva una grande pazienza ad insegnarci di tutto, dai nomi delle costellazioni alle impiombature. La sua nuova moglie si era sempre comportata da marinaia esperta ma si lasciarono pochi mesi dopo l’acquisto della barca, e già allora sospettai ci fosse un nesso fra i due eventi, quindi lui si ritrovò a dover badare a noi e alla barca, compito impossibile vista la nostra giovane età; imbarcò quindi un secondo con grande esperienza, un marinaio triestino purosangue – Uccio Skerl - che aveva navigato con Rode, il prodiere di Straulino, si era costruito una barca con cui era arrivato fino a Rodi con gli amici, aveva fatto la guerra in sala macchine, rischiato l’amputazione di una gamba dopo che una scheggia gli si era ficcata dentro durante l’attacco di Portoferraio, era stato affondato da un sommergibile in Adriatico, e insomma, da raccontare ne aveva davvero tante. Mi stupì raccontando come il comandante del sommergibile, prima di dare ordine di lanciare il siluro li aveva invitati a scendere sul canotto di salvataggio. Ora so che in mare siamo tutti uguali, ai tempi pensavo che i tedeschi sapessero dire solo Shnell e Foyer.

Per evitare la folla navigavamo in settembre. Pioveva sempre, quando non pioveva tirava mistral che imparai a capire che poi gira a scirocco, ma allora avevamo delle tappe da fare e si navigava sempre di bolina, sempre con cattivo tempo, sempre con delle previsioni inattendibili che continuavamo ad annotare a turno su giornali di bordo grossi come guide del telefono.
A me quelle vacanze piacevano. Mi sentivo grande, cambiavo le vele, andavo sott’acqua, parlavo in Corso e Francese, bevevo un bicchiere di vino a fine pasto, facevo le impiombature sotto lo sguardo di Uccio e alla sera tiravo bordi con il tender a vela in baie deserte, come Portocervo che ai tempi non era ancora stato “valorizzato” e imparavo a timonare, e raddrizzare la barca quando lo sbandamento risvegliava l’animale di ghiaccio che vive sotto la pelle.
Ma la barca era veramente brutta, un disastro, tanto che per anni, prima di mettermi a studiare la storia dello yachting, associai il nome di Laurent Giles con ogni tristezza in dote all’umanità. Era un Westerly Renown, un 31 piedi perfetto per una crociera alle Shetland fuori stagione. Stretta e con poco pescaggio aveva una chiglia piuttosto lunga e uno skeg che ne limitavano la manovrabilità. Una prua molto voluminosa che la teneva asciutta ma le impediva di bolinare con onda ed era armata a ketch. La prua era appesantita dal pozzetto della catena, dal suo verricello, e da un serbatoio con duecento litri d’acqua sotto la cuccetta. A poppa due gruette in ghisa con appeso il tender controbilanciavano e aiutavano un rollio che avrebbe fatto vomitare uno scimpanzè. Con una Vecchia Barca Sicura si sopravvive al cattivo tempo, si impara a regolare bene le vele come sull’optimist e si apprezzano quasi tutte le altre barche.
Se ci fosse ancora saprei come usarla. Potrei finalmente visitare le Shetland fuori stagione.
Questo è il nodo centrale della vela, bisogna avere sotto i piedi la barca giusta per fare quello che non si sa bene al momento dell’acquisto, non esiste la barca passpartout, come non esiste la casa ideale o l’auto definitiva.
A tredici anni feci la mia prima fuga di casa, pilotata dalla famiglia che mi affidò per un week end a Piero Nessi che aveva appena varato il suo primo trimarano con cui avrebbe partecipato alla Route du Rhum. Week end fulminante: prima navigazione notturna, da Sestri Levante ad Alassio nella tradizionale bufera da nord che imbianca il golfo di Genova all’inizio di primavera con conseguenti spruzzi fosforescenti al plancton che la prima volta fanno la loro bella figura, prima volta su di un multiscafo con velocità per me da brivido, e prima volta in camera con una donna che non mi era consanguigna , una amica di Nessi che essendo single non poteva certo dormire con i maschiacci dell’equipaggio. In un week end mi capitò più o meno tutto quello che capita nella vita di un velista, durante la burrasca per conquistare l’equipaggio mi diedi da fare con gli spaghetti e la mattina dopo tornai a casa in autostop da Alassio a Milano. WOW, ero diventato adulto, quegli animali dei miei compagnoi di scuola potevano prendermi per il culo per i capelli lunghi e la erre moscia ma loro l’alba nella tempesta, al largo di Savona al timone di un trimarano in alluminio che respirava come una balena dalla scassa della deriva non l’avrebbero mai vista in tutta la vita.
Diventai un fan e un discepolo di Piero Nessi che con grande pazienza qualche volta mi portò in barca e in cantiere. Imparai un paio di cose che mi sarebbero venute poi utili e mi sentii autorizzato a spacciarmi per esperto di multiscafo, altri ci cascarono in pieno e mi trovai poi a tirare bordi col Rusty Pelican al largo di Antibes e con Fleury Michon al largo di Finisterre. Sono stato il primo pirla a comprare un Formula 18 in Italia, l’ho sporcato con la limatura dei miei dischi lombosacrali e abbandonato per tornare sui cabinati e per me questa è la classe più bella in cui abbia navigato.

Le Belle Barche
Navigare con degli sconosciuti mi riempì di sicurezza in me stesso, l’anno seguente feci la mia prima regata accorgendomi che di velisti scarsi ce ne sono abbastanza da farmi autopromuovere fra quelli bravi e due anni dopo mi imbarcai per un trasferimento su un bellissimo “Two Tonner” appena sceso in mare che andava a fare le regate di Alassio: Vogliamatta. Ad Alassio, come si dice bonariamente, Vogliamatta si prese le carrube lasciandomi di sasso. Non avevo mai visto una barca così bella e così ben attrezzata, ero certo che avrebbe fatto un figurone e invece un bel metà classifica con l’onta di una strapuggia di quelle che non si fanno più e che , ammetto, ai tempi mi terrorizzavano solo a pensarci. Fallita la missione feci il trasferimento di ritorno lavorando come un matto e cambiando e facendo cambiar vele a ogni variazione del vento, fino a suscitare le proteste dell’equipaggio. L’ingegnier Pluda che aveva costruito la barca dei suoi sogni mi prese in simpatia e mi imbarcò per il trofeo Zegna, le regate di primavera a Portofino che ora sono diventate Regate Pirelli. Per farle saltai la scuola senza dirlo a casa, miei voti non permettevano vacanze premio e quindi venerdì presi un treno all’alba, tornai a casa per cena bello abbronzato giustificandomi con una seduta di studio ai giardini pubblici di via Palestro e annunciai che l’indomani sarei partito subito dopo scuola per andare al mare, mentre invece scappai di notte e presi un treno notturno che mi
riportò a Rapallo. La balla non fu mai scoperta, l’ho confessata solo pochi anni fa e mia madre non ci ha creduto. Questo ci insegna molto su quanto sia difficile farsi credere dai nostri simili. Mi comportai abbastanza bene da essere imbarcato stabilmente ma non così la barca più bella che avessi mai visto, che fece un risultato mediocre mandando l’armatore in depressione paperoniana. Per l’estate Aldo mi portò in Sardegna a fare la Settimana delle bocche.
Mi presentai a Rapallo, e fatta la spesa mettemmo la prua su Portocervo. Capito? Dopo anni di rotte tracciate con precisione angloprussiana sveglie all’alba per arrivare in porto in tempo per la cena questo qui partiva quando gli girava e chissenefrega di cosa succede per mare.
Avevo scoperto un mondo nuovo, quello delle belle barche. Le belle barche sono quelle che navigano con la sola randa, possono bolinare con trenta nodi, navigano più a vela che a motore, non nascondono strutture, attrezzature e impiantistica con pannelli e armadietti. Sono le vere barche a vela. Adlard Coles diceva che la miglior barca da crociera è la miglior barca da regata e, fino a qualche anno fa , il paragone calzava. Vogliamatta mi ha insegnato molto. Ho fatto il prodiere, il capoturno, il timoniere, il navigatore, e dopo un paio di anni anche dei bei risultati, quando il timone è stato affidato ad Agostino Traverso, un anziano velista genovese che ha messo a punto l’albero come gli sembrava giusto fregandosene delle tabelle preconfezionate dai professionisti mordi e fuggi e ha fatto quello che fanno tutti i bravi timonieri, cioè portato la barca velocemente sul lato giusto del percorso, fino a farci fare un bel secondo posto al Trofeo Zegna, che allora era una cosa importante. Sono salito su questo Vallicelli senza il rasoio e ne sono sceso skipper, dopo averla consegnata al nuovo armatore quando Aldo si è ammalato sul serio e ha capito che planate, burrasche buiabesse e tramonti nelle Bocche di Bonifacio non ne avrebbe più viste. Ne sono sceso skipper, pronto a partire a ogni ora del giorno e della notte, e con abbastanza esperienza da potermi presentare a Giorgio Falck e farmi imbarcare sul Guia o convincere Agostino Castiglioni a comprare Brava che il suo cabinato da crociera non andava abbastanza.

Le Belle Barche hanno dei verricelli che cazzano scotte in spectra, un tempo in acciaio e kevlar, fino a farle suonare come corde di violino, picchiano nell’onda senza rallentare, ma sottocoperta si sta bene che hanno le sponde alle cuccette e si riesce a cucinare anche con mare grosso. Avevo capito tutto della vela.
Le Robuste Barche Oceaniche
Pensavo di aver capito tutto ma Falck ha comprato New Zealand Enterprise per fare la regata intorno al mondo, quella che ora si chiama Volvo Ocean race e ho scoperto la fragilità delle robuste barche oceaniche. Queste nascono per navigare e soffrono di problemi che il crocierista pensa sepolti con la fine dell’ottocento. L’acqua deve restare fuori dalla barca, e invece entra dai boccaporti, dall’albero, dal bulbo e da ogni bullone che traversa la coperta. La barca non deve rompersi e i vezzeggiativi non si imbarcano: niente tavolini, stipetti, cucinotti, solo roba robusta che non deve restarti in mano se la barca sbanda o sbanda molto o quando arrivano degli ondoni che colgono alla sprovvista il timoniere, che navigando giorno e notte per settimane e settimane ogni tanto può anche rimbambirsi un attimo.

Gatorade, come fu ribattezzata, era un cantiere ambulante. A bordo c’erano sempre casse piene di bulloni, trapani, flessibili e barattoli che ad ogni sosta venivano tirati fuori per prepararsi alla grande
regata che il padrone delle Ferriere Lombarde che portavano il suo nome andava a fare per la terza volta convinto di poter fare un risultato grazie alle linee d’acqua di Bruce Farr e alla sua esperienza. Facemmo il Fastnet e finimmo ottavi, fecero “il giro”, come diceva il marinaio Jepson, e finirono ottavi. Ma chi se ne frega, Falck aveva mantenuto la sua promessa di portare un gruppo di ragazzi a vedere gli iceberg le aurore boreali e le planate interminabili nel grande sud, a me non mi potarono ma mi fecero innamorare dell’Oceano dei turni di guardia con ogni tempo e di quelli in cucina mentre senti che fuori c’è il pandemonio ma continui a mescolare la pommarola che oggi a me domani a te non ho scelto io in che turno stare.
C’è un gran baccano, sottocoperta. Senti la prua salire sull’onda, l’acqua che passa i paglioli si sposta verso un nuovo equilibrio e quando arriva la botta nel va tutto in risonanza, senti il rigido dello scafo che vibra, la coperta che flette e tutti i barattoli che si spostano nelle loro casse. Ora arriva la lavata in coperta, dal rumore capisci quant’acqua ti sta passando sopra la testa e automaticamente calcoli quanta ne entrerà da tutti i bulloni siliconati male in un suono di cascatelle che ti ricordano le estati in Val Fontana a giocare a far le dighe. Sopra diverse cuccette sono stati nastrati dei cellophane che convogliano l’acqua sul compare del piano di sotto, oggi a me domani a te.
Mi è capitato di non dormire per il freddo, per la tensione, per il rumore e per la sete. Qui, per la prima volta, sto sveglio per la tanfa. Si cammina su strati e strati di vele. Su un genoa ci ha cagato un cane mentre erano nel capannone di Sangermani, la vela è salita a bordo e coperta dalle altre e passa fuori il reacher, metti sotto lo staysail le deiezioni si sono democraticamente divise su tutti i sacchi, e piano piano se ne escono dalla pompa di sentina dopo aver colorato il contenuto della sentina, che già da solo non sembra potabile.
Ancora più salato Capo Finisterre con il trimarano che Pierre Sicouri aveva affittato per fare la OSTAR del 1988. Era il vecchio Fleury Michon VI, una barca della vecchia generazione , piuttosto voluminosa e

troppo pesante per potersi sollevare su uno scafetto laterale come si fa oggi ma ben rodata e dall’aria robusta. Su ste barche il passaggio dell’onda avviene un